Paris, Opéra Garnier, ”Demofoonte” di Niccolò Jommelli
UN’OCCASIONE MANCATA?
Grande attesa per l’arrivo di Riccardo Muti all’ Opéra Garnier, debuttante di lusso corteggiato a lungo dall’Opéra di Parigi, dove ora presenta la sua ultima riscoperta, il Demofoonte di Niccolò Jommelli, opera settecentesca napoletana già proposta al Festival di Pasqua di Salisburgo e che verrà a breve rappresentata al Festival di Ravenna nello stesso allestimento. La scelta di Riccado Muti rientra in un percorso di valorizzazione di opere dimenticate del ‘700 napoletano, per il quale nutre particolare predilezione e che cerca di riportare alla luce donandogli nuova freschezza con giovani orchestrali e cantanti formati con la cura e il perfezionismo che gli sono propri.
Demofoonte, tratta da un libretto di Pietro Metastasio dalla trama piuttosto complicata, ispirato a una tragedia antica, narra dell’amore contrastato fra la plebea Dircea e Timante, primogenito del Re Demofoonte, che vorrebbe fare sposare al figlio la regina frigia Creusa, di cui invece è innamorato il figlio cadetto Cherinto. Dopo condanne a morte, tentativi di fuga e agnizioni, il lieto fine sancisce la duplice unione di Timante con Dircea e di Creusa con Cherinto secondo le ragioni del cuore, esaltando la magnanimità sovrana. Il libretto di Demofoonte per il suo valore edificante conobbe grande popolarità e fu messo in musica una settantina di volte da vari compositori (Vivaldi, Gluck, Paisiello per citarne alcuni) e lo stesso Jommelli ne compose quattro diverse versioni. Il compositore, particolarmente celebre all’epoca, può essere considerato un autore “pre-classico”, interessante per novità stilistiche e per la maggiore attenzione alla psicologia dei personaggi e trait d’union fra il barocco e lo stile classico di Haydn e Mozart.
La messinscena di Cesare Lievi è sobria ed essenziale e sembra concepita per mettere in rilievo l’esecuzione musicale, di cui è una trasposizione estetica fedele, sottolineandone la struttura con un movimento scenico plastico e misurato.
La bianca scena di Margherita Palli è costituita da armoniose prospettive neoclassiche caratterizzate da archi, modanature e colonne, disposte rovesciate anche in orizzontale a comporre un’elegante scatola bianca, dalle cui aperture spuntano ciuffi di alberi, sprazzi di cielo, vedute marine, notturni stellati. Le belle luci di Luigi Saccomandi illuminano di delicate tonalità azzurrine e violacee il décor, rendendolo particolarmente raffinato e gradevole all’occhio. Nella scena quasi vuota si muovono i solisti con un gioco scenico misurato e molto statico per dare pieno risalto alla bellezza del canto e della musica: recitativi e bellissime arie si susseguono l’uno dopo l’altro con la stessa cura e perfezione, senza l’ombra di un cedimento o di una sbavatura e ci si lascia cullare in un’atmosfera rarefatta e composta. Ma la noia è in agguato e aria dopo aria gli applausi del pubblico, dapprima entusiasti, divengono sempre più stanchi e le tre ore e quaranta sembrano ancora più lunghe.
La regia, che rivela forte comunione d’intenti con il maestro, ne accentua tutta la classicità, ma la mancanza di autentica teatralità (limite già evidente nel libretto nonostante la complessità della trama), seppur assolutamente coerente con lo stile “immobile” dell’opera, lascia allo spettatore moderno una sensazione di mancato appagamento e ci si chiede se regie “prevaricanti” di segno forte non siano forse più adatte a valorizzare opere scomparse dal repertorio.
Tutti bravi i giovani cantanti dalla tecnica agguerrita per fare fronte a una scrittura impegnativa che richiede grande precisione, agilità e innegabili doti di dizione per scolpire i versi di Metastasio. Dimitry Korchak restituisce giusta autorevolezza a Demofoonte per la notevole estensione e gli acuti sicuri, Maria Grazia Schiavo è una Dircea intensa dalla tecnica impeccabile e il suo duetto con la rivale Creusa (interpretatata con onore da Eleonora Buratto) all’insegna del patetismo e della nobiltà è uno dei momenti più toccanti dell’opera. Nel ruolo en travesti di Timante José Maria Lo Monaco trova un canto preciso e appassionato e mette in giusto rilievo la delicatezza delle sue arie. Non convince il Matusio del controtenore Antonio Giovannini, apprezzabile il valoroso Cherinto di Valentina Coladonato, non degno di nota l’Adrasto di Valer Barna –Sabadus.
Riccardo Muti dirige con calma serafica, proponendo una lettura rigorosa e equilibrata, ideale per mettere in luce la bellezza plastica e il pre-classicismo dell’opera di Jommelli. L’orchestra giovanile Cherubini dimostra grande maturità tecnica e artistica e risponde in modo esemplare al rigoroso maestro con un virtuosismo orchestrale sempre teso e calibrato, dai suoni precisi e luminosi adatti per fare rivivere i fasti della scuola napoletana.
Mentre a Salisburgo l’opera ha avuto grande successo conquistando pubblico e critica, a Parigi l’aspettativa è stata tradita e, nonostante la perfezione esecutiva, si ha avuto la sensazione di un’occasione mancata. Le evidenti contestazioni nei confronti del maestro, fischiato sonoramente alla fine di ogni atto, non ne hanno messo in discussione il valore musicale, ma la scelta del titolo, a rivendicare il diritto del pubblico di vedere ciò che veramente piace, Muti o non Muti.
Visto a Parigi, Opéra Garnier, il 21 Giugno 2009
Ilaria Bellini
Teatro